Piero Lorenzoni torna a chiedere giustizia contro autodichia
Piero Lorenzoni torna a chiedere giustizia contro autodichia
di Irene Testa
Dopo tre udienze vane, tra Cassazione e Corte costituzionale, Piero Lorenzoni torna a chiedere giustizia contro l’autodichia. Contro questi argomenti, le Camere non sanno far altro che ripetere a pappagallo il mantra di un’autonomia che nessuno vuol mettere in discussione, ma che non può estendersi a profili esterni alla procedura parlamentare. L’autonomia non può schermare la gestione opaca degli appalti, né può prevenire revisioni di spesa sgradite mediante una gestione del personale che demansiona i suoi dipendenti. Non è un caso che i medesimi ex parlamentari abbiano firmato una petizione sul whistleblowing, che il Senato si è guardato bene dal calendarizzare.
Il calendario della Corte costituzionale del 26 e 27 settembre include anche: due ricorsi del tribunalino della Camera sulle pensioni dei dipendenti, difesi da un avvocato che è componente del tribunalino del Senato; un ricorso con cui il Segretariato generale del Quirinale cerca di evitare la condanna per danno erariale inflitta dalla Corte dei conti a due suoi ex dipendenti. Solo la linea tracciata dal ricorso Lorenzoni contro l’autodichia può consentire alla Corte di districarsi tra le ambiguità di questi casi, offrendo una guida per ripulire le stalle di Augia. Il relatore Amato ha già dichiarato che la Corte non rivendicherebbe mai per sé stessa una regola da quella che imporrebbe alle amministrazioni di altri organi costituzionali: saremo vigili, anche perché – a farsi dettare la linea da casi così scabrosi – ne perderebbe la credibilità delle Istituzioni repubblicane nel loro insieme.
In un momento storico in cui la massima dominante è “chi la fa l’aspetti”, non si può offrire uno strumento così degradato, come l’autodichia, per inquinare anche la politica del domani: occorre invece uniformarci a tutte le grandi democrazie moderne, che l’hanno superata da tempo.
Tutti coloro che si relazionano con le Istituzioni abbiano, grazie alla decisione della Corte, la chiara consapevolezza che, anche nei Palazzi del potere, vige la grande regola dello Stato di diritto.
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